Il nostro Natale, ieri oggi
Ancora una volta,
nella ricorrenza del Natale sento la necessità di trattare l’evento
straordinario che ha rivoluzionato la storia dell’umanità.
Giovanni Pascoli, nel
riprendere il mito di Platone, sostiene che dentro di noi vi è un “fanciullino”
che giunge alla verità osservando le cose con stupore.
Se la poesia deve
essere intuitiva e genuina, a maggior ragione la nascita del Redentore
ripropone la metafora del fanciullino.
Il Verbo si fa carne,
Dio scende sulla Terra per innalzare l’uomo fino a Lui. L’annuncio degli
Angeli, nella sua sintesi suggestiva, attribuisce la gloria al Creatore, la
pace al mondo e la celeste benevolenza agli onesti: «Gloria a Dio nel più alto
dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». (Lc 2, 14)
I Magi e i pastori si
avviano trepidanti verso la grotta di Betlemme, ma tanti altri rimangono
indifferenti al gioioso richiamo: ieri come oggi c’è chi preferisce i beni
terreni a quelli dello spirito.
Il monito di Dante
post-mortem ce lo conferma: «Ben più folta la Schiera Alta sarebbe / nella
delizia eterna celestiale, / se lo Spiritual Dono che s’ebbe / l’uomo seguisse
più che il materiale!» (“Dalla Terra al Cielo”).
Eppure, il mistero
del Natale rappresenta la realtà dell’infanzia e nello stesso tempo le origini
del mondo: un motivo di preghiera e di riflessione. Tutti siamo invitati a
migliorare il nostro stile di vita, rispettando la giustizia e cercando la
verità.
La festa, comportando
una pausa dello stress quotidiano, offre anche la possibilità di rinsaldare i
vincoli di parentela e di amicizia così spesso trascurati.
La data del 25
dicembre è puramente convenzionale: è stata fissata nel 350 da Papa Giulio I
per contrastare il perpetuarsi della festività pagana. Infatti proprio per quel
tempo, quattro giorni dopo il solstizio d’inverno, l’imperatore Aureliano nel
275 aveva deciso di esaltare il “Sole invitto” (“Dies natalis solis invicti”)
con giochi e cerimonie varie. Per la Chiesa è Cristo la “Luce del mondo” e il
vero “Sole di giustizia”. In quanto alla località, il Pontefice Joseph
Ratzinger - nel suo recente libro sull’infanzia di Gesù - asserisce che in realtà Questi sarebbe nato a
Nazareth e non a Betlemme come hanno scritto Matteo e Luca. L’affermazione dei
due evangelisti sarebbe teologica e non storica. Inoltre, non c’è alcuna
menzione del bue e dell’asinello nel “Nuovo Testamento”, soltanto nel “Vecchio”
Isaia profetizza: «Il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia
del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». (I, 3)
Papa Benedetto XVI è
del parere che la cometa sarebbe pure “un racconto teologico” da non mescolare
con l’astronomia, la sua luminosità era dovuta a una concomitante esplosione di
una supernova. Comunque, la stella è stato il primo passo nel cammino dei Magi
verso Gesù: «Non è la stella a determinare il destino del Bambino, ma il
bambino guida la stella».
In passato, le
tradizioni del periodo natalizio coinvolgevano l’intera comunità e in
particolare l’ambiente familiare, come rammenta il proverbio: «Pasca aundi voi
e di Natali cu’ li toi». (Trascorri la Pasqua dove gradisci, ma il Natale fra
le mura domestiche).
Così, gli emigranti
si partivano dai luoghi più sperduti e affrontavano pesanti viaggi, pur di
raggiungere i propri cari e il luogo natìo. La casa si trasformava in tempio e
davanti al camino, accanto al presepe, era tutto uno scambio di affetti e di
memorie.
L’attesa del
Salvatore viene espressa dal detto:
«Sant’Andrìa (30 nov.) portau la nova / ch’allu sei (6
dic.) è di Nicola, / all’ottu è di Maria, / allu tridici di Lucia, / allu
vinticincu lu Veru Missìa».
Gli usi popolari e le
cerimonie si protraevano per un mese, fino all’Epifania.
La vigilia di S.
Nicola tutta la famiglia si accingeva a preparare in un ampio tegame, posto
sulla viva fiamma della legna scoppiettante, un’abbondante quantità di mais
bianco e rosso (“posbìa”) che la sera si lasciava scoperta sul focolare sotto
il lucernario aperto. Era questo una finestrella sul tetto, costituita da una
tegola che si spostava con un bastone per lasciare passare il fumo. In tal
modo, durante la notte, San Nicola poteva comodamente benedire il cibo
orinandovi sopra.
Era segno di buon
auspicio se la pioggia, frequente in dicembre, bagnava il prodotto.
Di buon mattino, i
ragazzi del luogo reclamavano ad alta voce una porzione di “posbìa”. Pure agli
animali domestici si dava, per protezione, il cibo benedetto.
Contemporaneamente, veniva aggiunta ai giovani una pagnotta di granone
(“pizzateda”) per assolvere un voto.
I giorni
trascorrevano tranquilli e, mentre fanciulli e adulti giocavano con le nocciole
e a tombola, si giungeva tranquillamente alla novena di Natale.
Nella chiesa, gremita
di fedeli, di buon mattino si celebrava la Messa. Intanto gli zampognari,
soffermandosi di casa in casa, eseguivano le vecchie nenie natalizie. Per
indicare il loro passaggio attaccavano alle porte un’immagine di Gesù Bambino.
Gli stessi, alla vigilia della festa, formulavano gli auguri ricevendo in
cambio del danaro e qualche buon bicchiere di vino.
Durante la veglia di
Natale, in famiglia si consumava il cenone composto da tredici vivande e frutti
differenti, scelti tra quelli che le modeste condizioni permettevano: broccoli,
stoccafisso fritto e in umido (con aglio e limone), baccalà, mandarini,
castagne, lupini, noci, nocciole, arachidi, fichi secchi, finocchi, pastinache,
vino, torrone, “pitte” di S. Martino, “crespelle” e “zeppole”. Queste ultime
venivano preparate fin dal mattino per essere distribuite ai più bisognosi.
Alle 22,30 circa,
sempre della vigilia, in Chiesa iniziava il Santo Ufficio che terminava a
mezzanotte col canto del “Te Deum”, la processione e il bacio del Bambino,
salutati da fragorosi spari di mortaretti.
Gli antichi
ritenevano che, durante la Notte Santa, avvenissero degli eventi straordinari.
La natura si disponeva ad accogliere il Divino Pargoletto,
gli animali acquistavano il dono della parola e le piante producevano frutti
meravigliosi.
Il canto popolare,
che prende il nome dal primo verso e che veniva eseguito in chiesa, mette in
rilievo questa beatitudine universale:
«Allestìtivi, cari
amici, / ca su' jorna di Natali, / oh chi festa, oh chi trionfali / di gloria
Patri! // A li Celi gran festa si faci, / a la Chièsia càntanu ancora / e la
terra già 'ndi odora / di rosi e fiori. // E' nesciutu lu Redentori, / porta
beni, porta vita / e ogni grazia e noi 'ndi 'mbita / all'unioni. // Porta
grazii pe' li boni, / pe' li mali lu so' aiutu: / tutti quelli chi l'hannu
perdutu / lu vannu a trovari. // E lu vaci a ritrovari / cu' ha lasciatu la
bona via: / ca a lu Celu non s'arriva, / c'è lu sigillu. // Non guardati ch'è
piccirillu, / ca jè grandi e onnipotenti, / è sicuru ed assistenti / fino alla morti. // Figliu
natu di menzanotti, / figliu nudu e povarellu, / omu tantu rispettusellu / è
'nta la paglia! // E' copertu cu' 'na tovaglia, / è copertu cu' ver'amori, / la
so' mamma cu' tanto splendori / lu stringi al pettu. // O divinu me'
Pargolettu, / li Sant'Angeli calaru / e Maria la cumbitaru / a la capanna. //
Chida notti chi chiovìa manna, / chida notti desiderata, / l'erbiceda non era
nata / e spandìa meli. // Risplendenti
chi siti a lu Cielu, / risplendenti chi
siti a la grutta, / risplendenti è
l'aria tutta / ch'è maiestosa! //
E lu voi cu' l'asinellu / ch'adoravanu lu Gran Santu, / San
Giuseppi ch'è vecchiarellu /
è veneratu. // Si cogghjru li pasturi / tutti attornu a la
capanna, / adoravanu lu Missìa /
e la Madonna».
(«Sbrigatevi, cari
amici, / poiché son giorni di Natale, / oh che festa, che trionfo / di gloria
al Padre! // In Cielo è gran festa, / in Chiesa si canta ancora / e la terra
già odora / di rose e fiori. // E' nato il Redentore, / porta bene, porta vita
/ e ogni grazia e c'invita / all'unione. // Porta grazie per i buoni, / per i
cattivi il suo aiuto: / tutti quelli che l'hanno perduto / lo vadano a trovare.
// E lo vada a ritrovare / chi ha lasciato la buona via: / al Cielo non si
arriva, / c'è il sigillo. // Non guardate ch'è piccolino, / Egli è grande e
onnipotente, / è sicuro amico ed aiuta / fino alla morte. // Figlio nato di
mezzanotte, / figlio nudo e poverello, / uomo degno di rispetto / dentro la
paglia! // E' coperto da una tovaglia, / è coperto di vero amore, / la sua
mamma con tenerezza / lo stringe al petto. // O divino mio Pargoletto, / gli
Angeli santi son discesi / ed hanno invitato Maria / nella capanna. // Dal
cielo pioveva manna / quella notte desiderata, / l'erbetta non era ancora nata
/ e spandeva miele. // Che splendore per voi nel Cielo, / che splendore per chi
è alla grotta, / risplendente è l'aria tutta, / che è maestosa! // Ed il bue e
l'asinello / adoravano il Gran Santo / e San Giuseppe vecchiarello / è
venerato. // Si son radunati i pastori / tutti attorno alla capanna, /
adoravano il Messia / e la Madonna»). Il canto riportato è quello del mio S.
Martino di Taurianova, colmato in alcune lacune dalle altre versioni della
nostra Piana.
Con un po’ di
malinconia, il ciclo natalizio terminava il giorno dell’Epifania come tramanda
il detto popolare: « - Filati, cara
matri, ca li festi su’ passati, - / ma rispundi l’Epifania: - Gnura no’, ca
’nc’è la mia! - ». Il 6 gennaio in chiesa si pubblicavano (come tuttora) le
“calende”, vale a dire le statistiche religiose riguardanti i battesimi, i
matrimoni e i decessi avvenuti durante l’anno nella parrocchia. Per esortare al
ravvedimento, venivano segnalati i casi in cui i fedeli non avevano ricevuto
gli ultimi sacramenti. All’uscita dal luogo sacro, gli amici si scambiavano i
saluti e rinnovavano gli auguri per
l’anno nascente. La Befana, durante la notte, portava ai bambini cattivi cenere
e carbone e ai buoni un modesto dono: la moderna tecnologia non era neppure
immaginabile. Oggi si parla di crisi mondiale, di mancanza di lavoro e di
futuro per i giovani, mentre i mezzi di comunicazione reclamizzano i più
disparati prodotti di consumo, le vetrine delle città sfavillano di luci e le
strade sono intasate dalle macchine. «Non è il Natale di una volta» si ripete,
per il senso di solitudine che ci preoccupa e per l’allarmante caduta di
valori. La solidarietà non ha più senso, l’onestà è pura follia, la giustizia è
morta, la ricchezza è in mano ai pochi.
Ma dal Cielo ci
proviene ancora un raggio di speranza, se guardiamo il Natale con gli occhi di
un bimbo e ascoltiamo il canto dei poeti.
Per questo concludo coi versi limpidi e
raffinati del calabrese Vittorio Maria
Butera (nato a Conflenti nel 1877 e deceduto a Catanzaro nel 1955), che
ci riportano ai bei tempi degli avi: «
’A vecchiarella mia, fusu e cunòcchia, / fila comu sulìa ’nda quatraranza; / iu
le zumpu cuntientu a re jinocchia, / illa me cunta lesta ’na rumanza… / e ra zampugna sona ’n luntananza / e ri
cumpagni mie le fàu ra ròcchia (capannello). // Sona, zampugna! Portami luntanu / a ri
tiempi filici ’e quatraranza; / a nanna chi filava chianu chianu / ’ntramenti
me cuntava ’na rumanza; / a ru zuccu chi ardìa sempri cchiù chiaru, / sutt’ ’a
camastra (catena) de ’nu fuocularu! ».
Domenico
Caruso
Articolo pubblicato su "La Piana" di
Palmi - RC - Anno XI, n.12 - Dicembre 2012
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