venerdì 30 marzo 2012

Canti a Maria SS. della Montagna


Canti in onore di Maria SS. della Montagna
                                                                                             
 Nell’anima del popolo calabrese, profondamente religioso, la devozione per la Santa Vergine occupa un posto d’onore. Dopo la preghiera, il modo più immediato e suggestivo per comunicare con Lei è rappresentato dal canto.
 Dagli operosi centri urbani ai luoghi più remoti della nostra Terra, si levano ogni giorno inni di riconoscenza verso la Madre Celeste che ascolta e non delude mai i suoi figli.
  Da Polsi a Taurianova, da Capistrano a Galatro s’invoca a gran voce la protezione della Madonna della Montagna:
 - E jeu no’ mi movu di cca
 se la grazia Maria no’ mi fa:
 facitimmilla Madonna mia, facitimmilla pe’ carità -
 Secondo un’antica leggenda un pastore, nel ricercare la giovenca smarrita, la trovò in ginocchio davanti ad una croce di ferro che l’animale scavando con le zampe aveva riportato alla luce. Nello stesso istante gli comparve la Santa Vergine per esortarlo a far edificare sul posto un sacro tempio.
 L’episodio presenta più di una denominazione (Madonna del Bosco; Madonna della Montagna) e diverse varianti (un vitello o una giovenca; un mandriano o il conte Ruggiero).
 Il canto della Madonna di Polsi riportato da A. Corda nella pubblicazione «Dall’Aspromonte all’Ortobene», oltre al massaro ricorda la pellegrina incinta che, spossata dal cammino, si ristora con l’acqua  fresca che per prodigio sgorga ai suoi piedi:
             A menzu a quattro serri (gole) siti Vui,
          a menzu a quattro serri situata:
          di nivi di muntagna siti Vui,
          di nivi di muntagna giriata (circondata).
             Misi di giugnu, la nivi squagghiata (sciolta)
          Maria, a la vostra Cresia ognunu vota (si dirige):
          ch’è bella l’acqua a menzu la ‘nchianata,
          undi la prena ‘ndi disìa ‘na vôta.
             A la muntagna cumparìu ‘na rosa,
          Madonna di lu Voscu ora si chiama.
          Madonna ‘ntra lu voscu situata        
          ‘menzu a la nivi a ‘na parti rimota.
          Maria facitimi grazia chist’annata
          mu vegnu ad Asprumunti ‘n’atra vota.
             Meraculu di Ddeu chja matina
          ca lu massaru lu jencu trovau;
          vaci, e lu trova ad Asprumunti e china
          ch’anginocchiuni la cruci adurava,
          ora aduramu a Vui, Matri divina,
          Madonna di lu Voscu e di la Chiana.
 A Spìlinga (VV), come si legge nel n. 12 de La Calabria (rivista di letteratura popolare) del 15 agosto 1894, l’animale della leggenda è un torello:
          Subba l’Asperu Munti nc’è ‘u ritrattu,
          si no’ ffarò l’ottava iu su’ mortu.
          La lingua ‘nta li denti mi la spartu
          chiamandu la Madonna de lu Voscu.
          E de lu voscu jera la Madonna,
          nesciuta de ‘na lingua de prufeta.
          E comu vozzi Diu chija matina
          lu massaredhu lu jencu truvava.
          Lu jencaredhu, ncrinatu a la spina,
          lu pedi di la cruci s’adurava.
 Negli altarini che venivano allestiti anche a Taurianova, in occasione della novena della Madonna della Montagna, Patrona della città, si ripeteva in coro:
          A li pedi di la Madonna
          e ‘nu bellu vitellu’ nci sta:
          dudici stelli attornu attornu
          e la luna splendori ‘nci fa.
          Rit.:   E jeu no’ mi movu di cca,
                    se la grazzia Maria no’ mi fa:
                    facitimmilla, Madonna mia,
                    facitimmilla pe’ carità!
          A la vita di la Madonna
          e ‘nu bellu curduni ‘nci sta:
          dudici stelli attornu attornu
          e la luna splendori ‘nci fa.
                    A lu pettu di la Madonna
                    e ‘na bella rosa ‘nci sta:
                    dudici stelli attornu attornu
                    e la luna splendori ‘nci fa.
          A li vrazza di la Madonna
          e ‘nu bellu  bambinu ‘nci sta:
          dudici stelli attornu attornu
          e la luna splendori ‘nci fa.
                    A la testa di la Madonna
                    e ‘na bella curuna ‘nci sta:
                    dudici stelli attornu attornu
                    e la luna splendori ‘nci fa!
 E’ molto bello potersi raccomandare alla Divina Madre durante l’arco della giornata, come risulta dalla preghiera di Polsi:
          Bona sira Vi dicu a Vui, Madonna,
          la gloriusa di Santa Maria.
                    E la matina: bongiornu, bongiornu,
                    Siti patruna di tuttu lu mundu.
          Liberatindi di’ peni di lu ‘mpernu,
          di tutti li disgrazzi di lu mundu.
                    Supra all’artaru ‘nc’è ‘na gran Signura,
                    Maria di la Muntagna ca si chiama.
          A cu’ ‘nci cerca grazzi ca ‘nci duna,
          cu’ ‘nd’ha cori malatu ‘nci lu sana.
                    Ora, gran Matri mia, Vi cercu una:
                    st’arma cuntenta e la mia vita sana.
          Jeu non Vi dicu quantu mmeritati:
          Vergini bella, non ‘nd’abbandunati.
                    Jeu mi ‘ndi vaju e Vi dassu filici,
                    accompagnata cu’ l’Angeli stati.
          E la Madonna si vota e mi dici:
          «Vajiti, bona sira e santa paci!».
 La semplicità e la bellezza di Maria servono da esempio e da incoraggiamento ad ogni fedele:
          Maria di la Montagna bella assai,    
          ‘ncurunata di stelli siti Vui,
          quandu mi sentu ‘bbandunatu assai,
          Maria di la Muntagna chiamu a Vui!
 Il richiamo della Vergine di Polsi è irresistibile. I fedeli che vi giungono, dopo un estenuante viaggio, implorano (come  rileviamo anche dal canto di apertura) la grazia di un felice ritorno:
          ‘Ndavi tri notti chi non’ pìgghju sonnu,
          ca la Madonna mi veni a svegliari.
          - Lèvati, pellegrinu, non dormiri,
          la strata d’Aspromunti nd’hai e pigghjari;
          ‘nta la me’ chiesia tu nd’haj di dormiri,
          cu’ li devoti mei tu nd’hai e parlari!
 E per finire:
          Vergini bella, japrìtindi li porti,
          ca stannu arrivandu li devoti Vostri.
                    E nui venimu sonandu e cantandu,
                    Maria di la Muntagna cu’ Vui m’arriccumandu.
          Vergini bella, dàtindi la manu,
          ca simu foresteri e venimu di luntanu.
                    M’arriccumandu la notti e lu jornu,
                    ‘na bona andata e ‘nu bonu ritornu!
                                                                              
                     Maria SS. della Montagna, Patrona di Taurianova (RC)

(Servizio pubblicato sul mensile "La Piana" di Palmi-RC - Anno IV, n.1 - Gennaio 2005)

                                         

domenica 25 marzo 2012

La donna calabrese



La donna calabrese

 Fin dall’antichità la donna è stata considerata in condizioni subalterne e relegata al ruolo domestico, poiché veniva ritenuta meno capace e meno intelligente dell’uomo. Gli aforismi rivelano, perciò, una costante misogina:
 ’A fìmmana ’ndavi ’i capidi longhi e ’a menti curta.
(La donna ha i capelli lunghi e il cervello corto).
 Oggi, avendo la donna vinto la  battaglia sulla parità di diritti, è crollata la teoria della sua incapacità.
 I Romani si limitavano al censimento delle facoltose e soltanto dal III sec. d. C.  Diocleziano ordinò per motivi fiscali la registrazione delle donne.
 La società maschilista del passato bandiva il gentil sesso dalle cariche civili e religiose: • All’omu ’a scupetta, a’ fìmmana ’a cazetta.
(All’uomo il fucile, alla donna la calza). Ed ancora:
 Se voi vidìri la bbona massara, guàrdala quando smìccia la lumera.
(Intenta a lavorare al lume di candela puoi incontrare la perfetta massaia).
 ’A fìmmana faci e ’a fìmmana spaci ’a casa.
(Le sorti della casa dipendono dal modo di agire della donna).
 I lavori domestici richiedono tempo e fatica. Pertanto, era giustificato il proverbio di San Martino (R.C.): • ’A fìmmana chi va’ fora, né tila né lenzola.
(Chi va fuori non trova il tempo per tessere, né per preparare il corredo).
In qualche centro della Piana di Gioia Tauro si ammoniva:
 ’A fìmmana chi anda, rrùmpici la gamba!
(Punisci con  severità la giovane che va in giro!)
 Gli avi giudicavano le persone dalla loro capacità:
 ’A donna com’è faci li cosi, lu lignu di chi jè faci li brasi.
(La brace differisce secondo il legno, la donna dalle proprie attitudini).
 Il trattamento riservato all’uomo differiva da quello della donna:
 I màsculi cu’ meli e ’i fìmmani cu’ feli.
(I maschi col miele e le femmine col fiele).
Il dovere coniugale della donna era la sottomissione al marito:
 A nudu mu pozzu, a’ mugghjèrima ’a pozzu!
(Con mia moglie posso usare anche violenza!).
 Per secoli la donna ha sopportato sulla propria pelle ogni genere di sopruso e di servilismo e quando ha raggiunto la sua libertà nessun proverbio è stato coniato a suo favore. C’è chi ricorda ancora il dramma della nostra Terra, nel momento in cui gli uomini furono costretti ad emigrare in massa per motivi di lavoro e la donna rimase a tutela dei Lari familiari.  
 • Facci non viduta, vali cchjù di centu ducati ’i valuta.
(Una donna ritirata in casa vale più di cento ducati).
 ’A mugghieri jè menzu pani. (La moglie rappresenta un buon partito).
Per il sesso femminile la bellezza è determinante, anche se:
 Donna barvuta è sempri piaciuta. Ogni medaglia, però, ha il suo rovescio:
 Ddeu mu ti  lìbara di l’òmani sbani e di’ fìmmani barvuti!
(Il Signore ci liberi dagli uomini imberbi e dalle donne barbute!)
Avere una bella moglie costituisce motivo di legittimo orgoglio:
 • La brutta quand’è brutta di natura, hai vògghja pemmu fai lu strica e lava;
 la bella quand’è bella di natura, cchjù sciamparata va’ e cchjù bella pari!
(Per una brutta ogni stropicciamento si rivela inutile, mentre una bella piace anche se semplice). • Cu’ ndavi pocu dinari sempri cunta; cu’ ndavi ’a mugghjeri bella sempri canta!
(Chi ha poco danaro conta sempre; chi ha la moglie bella sempre canta).
E’ bello ciò che va a genio, non il danaro: • Gèniu fa’ bellizzi e no’ dinari!
Ma attenzione, la donna è come il felino domestico che più l’accarezzi e più solleva la coda: • ’A fìmmana è comu ‘a gatta: cchjù l’accarizzi e cchjù jìza ’a cuda! Non bisogna mai credere alle lacrime della donna, al giuramento dell’uomo e al cavallo che suda: • A donna chi ciàngi, omu chi giura e cavadu chi suda no’ cridìri mai. Senza più discriminazioni, in famiglia può finalmente regnare una felice convivenza purché l’uomo non si faccia sottomettere.
 Nella nostra società ci sono tanti gravi problemi e la donna, non più femmina, ci può dare una mano a risolverli. Lo scrittore latino Aulo Gallio affermava:
 Mulier malum necessarium. (La donna è un male necessario).
Vogliamo, dunque, bene alle nostre donne che «ci piacciono perché sono meravigliose», come sosteneva Achille Campanile, «o ci sembrano meravigliose perché ci piacciono?».
                                                                                                             Domenico Caruso


Amuri grandi


           Amuri grandi

Versi di Domenico Caruso  
Musica di Camillo Berardi

Strofa:
Ti vitti, bella mia, chi ricamavi,
’na rosa a lu tilaru tu facivi;
mu ti rimiru già jeu lu pensavi
e no’ jizasti l’occhj ’u mi ricivi.
Tramenti tu cusivi ti fermai
e ’ndi guardammu comu tu lu sai.

Ritornello:                                                   
Amuri grandi, jeu non haju paci,                
mi manca ’a lena cu’ parenti e amici:
’stu matrimoni, ’u sai,’ndavi ’u si faci,
bella pe’ mmia to’ mamma ti fici.

Strofa:
Giojuzza, veni a mia, veni accoglienti
e no’ mi fari cchjù tantu peniari;
li toi sarannu puru assai cuntenti
mu vìdinu ca ’ndi volimu amari.
Lu suli cu’ la luna ora s’uniru
e nu’ tiramu forti ’nu suspiru.

Finale:
Amuri meu grandi, jeu non haju cchjù  paci!

                   
Traduzione
          
      Amore grande
Versi di Domenico Caruso  
Musica di Camillo Berardi

Strofa:
T’ho vista, bella mia, che ricamavi
ed al telaio una rosa facevi;
ad ammirarti già lo pensavo
e non hai sollevato lo sguardo per ricevermi.
Nel mentre tu cucivi ti ho fermata
e ci siamo guardati come ben sai.

Ritornello:
Amore grande, io non ho più pace,
mi manca la forza, come parenti e amici:
questo matrimonio, sappilo, si ha da fare,
tua madre ti ha procreato bella per me.

Strofa:
Vieni, gioia mia, vieni accogliente
e non mi fare tanto soffrire;
i tuoi saranno pure molto contenti
nel vedere che ci vogliamo bene.
Il sole con la luna si sono uniti
e noi tiriamo un forte sospiro.

Finale:
Amore mio grande, io non ho più  pace!