martedì 25 dicembre 2012

Natale 2012



Il nostro Natale, ieri oggi

 Ancora una volta, nella ricorrenza del Natale sento la necessità di trattare l’evento straordinario che ha rivoluzionato la storia dell’umanità.
 Giovanni Pascoli, nel riprendere il mito di Platone, sostiene che dentro di noi vi è un “fanciullino” che giunge alla verità osservando le cose con stupore.
 Se la poesia deve essere intuitiva e genuina, a maggior ragione la nascita del Redentore ripropone la metafora del fanciullino. 
 Il Verbo si fa carne, Dio scende sulla Terra per innalzare l’uomo fino a Lui. L’annuncio degli Angeli, nella sua sintesi suggestiva, attribuisce la gloria al Creatore, la pace al mondo e la celeste benevolenza agli onesti: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». (Lc 2, 14)
 I Magi e i pastori si avviano trepidanti verso la grotta di Betlemme, ma tanti altri rimangono indifferenti al gioioso richiamo: ieri come oggi c’è chi preferisce i beni terreni a quelli dello spirito.
 Il monito di Dante post-mortem ce lo conferma: «Ben più folta la Schiera Alta sarebbe / nella delizia eterna celestiale, / se lo Spiritual Dono che s’ebbe / l’uomo seguisse più che il materiale!» (“Dalla Terra al Cielo”).
 Eppure, il mistero del Natale rappresenta la realtà dell’infanzia e nello stesso tempo le origini del mondo: un motivo di preghiera e di riflessione. Tutti siamo invitati a migliorare il nostro stile di vita, rispettando la giustizia e cercando la verità.
 La festa, comportando una pausa dello stress quotidiano, offre anche la possibilità di rinsaldare i vincoli di parentela e di amicizia così spesso trascurati.
 La data del 25 dicembre è puramente convenzionale: è stata fissata nel 350 da Papa Giulio I per contrastare il perpetuarsi della festività pagana. Infatti proprio per quel tempo, quattro giorni dopo il solstizio d’inverno, l’imperatore Aureliano nel 275 aveva deciso di esaltare il “Sole invitto” (“Dies natalis solis invicti”) con giochi e cerimonie varie. Per la Chiesa è Cristo la “Luce del mondo” e il vero “Sole di giustizia”. In quanto alla località, il Pontefice Joseph Ratzinger - nel suo recente libro sull’infanzia di Gesù -  asserisce che in realtà Questi sarebbe nato a Nazareth e non a Betlemme come hanno scritto Matteo e Luca. L’affermazione dei due evangelisti sarebbe teologica e non storica. Inoltre, non c’è alcuna menzione del bue e dell’asinello nel “Nuovo Testamento”, soltanto nel “Vecchio” Isaia profetizza: «Il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». (I, 3)
 Papa Benedetto XVI è del parere che la cometa sarebbe pure “un racconto teologico” da non mescolare con l’astronomia, la sua luminosità era dovuta a una concomitante esplosione di una supernova. Comunque, la stella è stato il primo passo nel cammino dei Magi verso Gesù: «Non è la stella a determinare il destino del Bambino, ma il bambino guida la stella».
 In passato, le tradizioni del periodo natalizio coinvolgevano l’intera comunità e in particolare l’ambiente familiare, come rammenta il proverbio: «Pasca aundi voi e di Natali cu’ li toi». (Trascorri la Pasqua dove gradisci, ma il Natale fra le mura domestiche).
 Così, gli emigranti si partivano dai luoghi più sperduti e affrontavano pesanti viaggi, pur di raggiungere i propri cari e il luogo natìo. La casa si trasformava in tempio e davanti al camino, accanto al presepe, era tutto uno scambio di affetti e di memorie.
 L’attesa del Salvatore viene espressa dal detto:
 «Sant’Andrìa  (30 nov.) portau la nova / ch’allu sei (6 dic.) è di Nicola, / all’ottu è di Maria, / allu tridici di Lucia, / allu vinticincu lu Veru Missìa».
 Gli usi popolari e le cerimonie si protraevano per un mese, fino all’Epifania.
 La vigilia di S. Nicola tutta la famiglia si accingeva a preparare in un ampio tegame, posto sulla viva fiamma della legna scoppiettante, un’abbondante quantità di mais bianco e rosso (“posbìa”) che la sera si lasciava scoperta sul focolare sotto il lucernario aperto. Era questo una finestrella sul tetto, costituita da una tegola che si spostava con un bastone per lasciare passare il fumo. In tal modo, durante la notte, San Nicola poteva comodamente benedire il cibo orinandovi sopra.
 Era segno di buon auspicio se la pioggia, frequente in dicembre, bagnava il prodotto.
 Di buon mattino, i ragazzi del luogo reclamavano ad alta voce una porzione di “posbìa”. Pure agli animali domestici si dava, per protezione, il cibo benedetto. Contemporaneamente, veniva aggiunta ai giovani una pagnotta di granone (“pizzateda”) per assolvere un voto.
 I giorni trascorrevano tranquilli e, mentre fanciulli e adulti giocavano con le nocciole e a tombola, si giungeva tranquillamente alla novena di Natale.
 Nella chiesa, gremita di fedeli, di buon mattino si celebrava la Messa. Intanto gli zampognari, soffermandosi di casa in casa, eseguivano le vecchie nenie natalizie. Per indicare il loro passaggio attaccavano alle porte un’immagine di Gesù Bambino. Gli stessi, alla vigilia della festa, formulavano gli auguri ricevendo in cambio del danaro e qualche buon bicchiere di vino.
 Durante la veglia di Natale, in famiglia si consumava il cenone composto da tredici vivande e frutti differenti, scelti tra quelli che le modeste condizioni permettevano: broccoli, stoccafisso fritto e in umido (con aglio e limone), baccalà, mandarini, castagne, lupini, noci, nocciole, arachidi, fichi secchi, finocchi, pastinache, vino, torrone, “pitte” di S. Martino, “crespelle” e “zeppole”. Queste ultime venivano preparate fin dal mattino per essere distribuite ai più bisognosi.
 Alle 22,30 circa, sempre della vigilia, in Chiesa iniziava il Santo Ufficio che terminava a mezzanotte col canto del “Te Deum”, la processione e il bacio del Bambino, salutati da fragorosi spari di mortaretti.
 Gli antichi ritenevano che, durante la Notte Santa, avvenissero degli eventi straordinari.
 La natura si  disponeva ad accogliere il Divino Pargoletto, gli animali acquistavano il dono della parola e le piante producevano frutti meravigliosi.
 Il canto popolare, che prende il nome dal primo verso e che veniva eseguito in chiesa, mette in rilievo questa beatitudine universale:
 «Allestìtivi, cari amici, / ca su' jorna di Natali, / oh chi festa, oh chi trionfali / di gloria Patri! // A li Celi gran festa si faci, / a la Chièsia càntanu ancora / e la terra già 'ndi odora / di rosi e fiori. // E' nesciutu lu Redentori, / porta beni, porta vita / e ogni grazia e noi 'ndi 'mbita / all'unioni. // Porta grazii pe' li boni, / pe' li mali lu so' aiutu: / tutti quelli chi l'hannu perdutu / lu vannu a trovari. // E lu vaci a ritrovari / cu' ha lasciatu la bona via: / ca a lu Celu non s'arriva, / c'è lu sigillu. // Non guardati ch'è piccirillu, / ca jè grandi e onnipotenti, / è sicuru  ed assistenti / fino alla morti. // Figliu natu di menzanotti, / figliu nudu e povarellu, / omu tantu rispettusellu / è 'nta la paglia! // E' copertu cu' 'na tovaglia, / è copertu cu' ver'amori, / la so' mamma cu' tanto splendori / lu stringi al pettu. // O divinu me' Pargolettu, / li Sant'Angeli calaru / e Maria la cumbitaru / a la capanna. // Chida notti chi chiovìa manna, / chida notti desiderata, / l'erbiceda non era nata / e spandìa meli. //  Risplendenti chi siti a lu Cielu, /  risplendenti chi siti a la grutta, /  risplendenti è l'aria tutta / ch'è maiestosa! //
E lu voi cu' l'asinellu / ch'adoravanu lu Gran Santu, / San Giuseppi ch'è vecchiarellu /
è veneratu. // Si cogghjru li pasturi / tutti attornu a la capanna, / adoravanu lu Missìa /
e la Madonna».
 («Sbrigatevi, cari amici, / poiché son giorni di Natale, / oh che festa, che trionfo / di gloria al Padre! // In Cielo è gran festa, / in Chiesa si canta ancora / e la terra già odora / di rose e fiori. // E' nato il Redentore, / porta bene, porta vita / e ogni grazia e c'invita / all'unione. // Porta grazie per i buoni, / per i cattivi il suo aiuto: / tutti quelli che l'hanno perduto / lo vadano a trovare. // E lo vada a ritrovare / chi ha lasciato la buona via: / al Cielo non si arriva, / c'è il sigillo. // Non guardate ch'è piccolino, / Egli è grande e onnipotente, / è sicuro amico ed aiuta / fino alla morte. // Figlio nato di mezzanotte, / figlio nudo e poverello, / uomo degno di rispetto / dentro la paglia! // E' coperto da una tovaglia, / è coperto di vero amore, / la sua mamma con tenerezza / lo stringe al petto. // O divino mio Pargoletto, / gli Angeli santi son discesi / ed hanno invitato Maria / nella capanna. // Dal cielo pioveva manna / quella notte desiderata, / l'erbetta non era ancora nata / e spandeva miele. // Che splendore per voi nel Cielo, / che splendore per chi è alla grotta, / risplendente è l'aria tutta, / che è maestosa! // Ed il bue e l'asinello / adoravano il Gran Santo / e San Giuseppe vecchiarello / è venerato. // Si son radunati i pastori / tutti attorno alla capanna, / adoravano il Messia / e la Madonna»). Il canto riportato è quello del mio S. Martino di Taurianova, colmato in alcune lacune dalle altre versioni della nostra Piana.
 Con un po’ di malinconia, il ciclo natalizio terminava il giorno dell’Epifania come tramanda il detto popolare:  « - Filati, cara matri, ca li festi su’ passati, - / ma rispundi l’Epifania: - Gnura no’, ca ’nc’è la mia! - ». Il 6 gennaio in chiesa si pubblicavano (come tuttora) le “calende”, vale a dire le statistiche religiose riguardanti i battesimi, i matrimoni e i decessi avvenuti durante l’anno nella parrocchia. Per esortare al ravvedimento, venivano segnalati i casi in cui i fedeli non avevano ricevuto gli ultimi sacramenti. All’uscita dal luogo sacro, gli amici si scambiavano i saluti e  rinnovavano gli auguri per l’anno nascente. La Befana, durante la notte, portava ai bambini cattivi cenere e carbone e ai buoni un modesto dono: la moderna tecnologia non era neppure immaginabile. Oggi si parla di crisi mondiale, di mancanza di lavoro e di futuro per i giovani, mentre i mezzi di comunicazione reclamizzano i più disparati prodotti di consumo, le vetrine delle città sfavillano di luci e le strade sono intasate dalle macchine. «Non è il Natale di una volta» si ripete, per il senso di solitudine che ci preoccupa e per l’allarmante caduta di valori. La solidarietà non ha più senso, l’onestà è pura follia, la giustizia è morta, la ricchezza è in mano ai pochi.
 Ma dal Cielo ci proviene ancora un raggio di speranza, se guardiamo il Natale con gli occhi di un bimbo e ascoltiamo il canto dei poeti.
 Per questo concludo coi versi limpidi e raffinati del calabrese Vittorio Maria Butera (nato a Conflenti nel 1877 e deceduto a Catanzaro nel 1955), che ci riportano ai bei tempi degli avi: « ’A vecchiarella mia, fusu e cunòcchia, / fila comu sulìa ’nda quatraranza; / iu le zumpu cuntientu a re jinocchia, / illa me cunta lesta ’na rumanza… /  e ra zampugna sona ’n luntananza / e ri cumpagni mie le fàu ra ròcchia (capannello). // Sona, zampugna! Portami luntanu / a ri tiempi filici ’e quatraranza; / a nanna chi filava chianu chianu / ’ntramenti me cuntava ’na rumanza; / a ru zuccu chi ardìa sempri cchiù chiaru, / sutt’ ’a camastra (catena) de ’nu fuocularu! ».
                                                                                                  Domenico Caruso
Articolo pubblicato su "La Piana" di Palmi - RC - Anno XI, n.12 - Dicembre 2012