Riporto l’ultima parte de “Il
processo di Gesù”, che ho pubblicato sul mensile La Piana di Palmi-RC - Anno X, dall’aprile al luglio 2011:
[…] (Pilato)
informato dal centurione (della morte), concesse il cadavere a Giuseppe
d'Arimatea, il quale, comprato un panno di lino, fece deporre Gesù, lo avvolse
col panno di lino e lo pose in un sepolcro che era stato tagliato nella roccia.
(
Mc 15, 45-46).
Per la tradizione
ebraica non si poteva uccidere un uomo che non fosse stato giudicato dal
Sinedrio. L'organo preposto al rispetto della Legge era - generalmente -
formato da 70 membri (oltre al presidente), che si riunivano nella sinagoga. I
testi normativi prevedevano un quorum
di 23 membri per la validità delle decisioni: il primo gruppo era costituito
dai sacerdoti, il secondo da ricchi
laici di Gerusalemme (anziani del popolo),
il terzo dagli scribi.
Fra i seguaci
nascosti del Nazzareno c'era Giuseppe
d'Arimatea, «uomo giusto e buono, […] hic
non consenserat consilio et actibus eorum (che non si era associato alla
loro deliberazione e alla loro azione)» (Lc
23, 50-51).
Giovanni lo definisce
«discepolo di Gesù, ma segreto per paura dei Giudei» (19, 38). E' probabile che sia stato proprio il Divino
Maestro a consigliarlo di tenersi lontano. Sarà lui a svolgere un ruolo
determinante nella Passione.
Giuseppe si fece dare
da Pilato il corpo di Gesù che depose dalla croce, avvolse in un sudario,
sistemò e sigillò nella tomba.
L'evangelista Marco
completa il ritratto di Giuseppe, «distinto membro del consiglio, il quale
(come tanti giusti israelitici) aspettava anch'egli il regno di Dio» (15, 43).
Ripercorriamo
brevemente le varie tappe del Calvario per comprendere le angosciose condizioni
fisiche e psicologiche di Gesù.
La notte in cui fu
tradito, al Getsemani «incominciò ad essere preso da terrore e da spavento.
Perciò disse loro (ai discepoli): L'anima
mia è triste fino alla morte.
Rimanete qui e vegliate!» (Mc 14,
33-34).
Seguirono il
tradimento di Giuda, l'arresto, l'abbandono e la fuga degli apostoli, la
comparsa da Anna, il rinnegamento di Pietro. Una delle guardie gli diede uno schiaffo;
Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote. E il gallo cantò tre volte.
«Intanto gli uomini
che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo percuotevano. Gli bendavano gli
occhi e gli domandavano: Indovina: chi ti
ha colpito?. E dicevano contro di
lui molte altre cose, bestemmiando» (Lc
22, 63-65). Fattosi giorno, difronte al Sinedrio si celebrò il processo
religioso. In disparte, Giuda si uccise; Gesù da Pilato e da Erode subì la
condanna romana.
Pilato, dopo
l'interrogatorio e il rilascio di Barabba, lo fece flagellare dai soldati;
quindi coronato di spine, schernito, spogliato, sputato ed ancora percosso lo presentò: Ecce Homo! (Gv 19, 5).
Si pervenne, così,
all'ora della crocifissione e della morte.
Dallo studio della Sacra Sindone si possono dedurre le
sofferenze finali del Nazzareno. Il sudario, conservato nel Duomo di Torino,
fin dal 1898 (anno in cui fu fotografato per la prima volta) è oggetto di
controversie scientifiche, ma la sua veridicità sta nella fede di chi crede.
Sul lenzuolo funebre è visibile l'immagine di un uomo di cui è identificabile
la causa di morte, la crocifissione. Oltre alla rigidità cadaverica, si notano
le ferite da flagellazione, i fori dei chiodi ai polsi e ai piedi, lo squarcio
al fianco sinistro, le trafitte sul cuoio capelluto. La corta frusta (flagrum), con palline di piombo e ossa
di pecora infilate nelle cinghie di pelle, aveva prodotto profonde lacerazioni
sufficienti ad indebolire l'esausto fisico. Se a ciò si aggiungono il dolore
lancinante del passaggio dei chiodi, il peso continuo del corpo,
l'impossibilità di movimento e il colpo di grazia è chiaro che non c'era
possibilità di sopravvivenza. La fuoruscita di sangue (corrispondente al gruppo
AB umano) e liquido sieroso fu cagionata dallo squarcio della lancia acuminata.
I segni della Sindone
corrispondono alla testimonianza evangelica.
Nella narrazione
popolare di nonna Vincenza Femìa si rievocano i momenti più drammatici di Gesù
e dell'afflitta Madre:
Matina di lu vènnari
a la strata di Maria,
e cu' vo' sentiri pianti
pemmu va' vàsciu a la Cruci
ca dà c'è Maria chi piangi:
Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
Ca cincu piaghi 'nci fìciaru a fìgghiuma
chidi 'nfami e crudili;
ca cincu piaghi 'nci ficiaru a fìgghiuma
chidi 'nfami e tradituri!
E cu' vo' sentiri pianti
pemmu va vàsciu a la Cruci
ca dà c'è Maria chi piangi:
- Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
Chida piaga di li pedi
chida dà nd'ha fattu beni;
se fu chida di li mani,
chida fu caja mortali;
se fu chida di lu ventri
chida fu la cchiù dolenti;
se fu chida di la testa
chida fu la cchiù tempesta;
se fu chida di lu latu
'nci scasau l'arma e lu hjatu!
E cu' vo' sentìri pianti
pemmu va' vàsciu a la Cruci,
ca dà c'è Maria chi piangi:
- Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
Per dissipare ogni dubbio sui veri colpevoli
della condanna ripartiamo dall'antisemitismo, sentimento piuttosto diffuso
anche prima del Cristianesimo, che considera il popolo ebraico nemico degli
uomini e degli dei.
«Forse la formulazione troppo schematica di
Giovanni non avrebbe avuto tanto peso nei secoli successivi, se Matteo non
avesse riferito l'incidente sopraggiunto alla fine del processo: E tutto
il popolo rispose: - Il suo sangue ricada sopra noi e i nostri figli - ». (Mt 27, 25).
Dopo la morte di Cristo, però, i suoi
discepoli dovettero subire le violenze delle autorità ebraiche.
E' da ribadire che la
conclusione del processo romano, come si evince anche dai Vangeli, fu dettata
da motivi politici.
Una prima ipotesi riguarda l'opera e
l'atteggiamento di Gesù ritenuti sovversivi dal governatore. «Una seconda
spiegazione è anche perfettamente conducibile con la condanna politica inflitta
da Pilato: lo scontro di Gesù non fu con Roma, ma con i capi del suo popolo, in
particolare con l'aristocrazia sacerdotale. Costoro tuttavia riuscirono a farlo
apparire come rivoluzionario di fronte a Pilato, per cui ne ottennero la
condanna».
Il Sinedrio, invece,
da quando nella Giudea vi fu un amministratore romano, non poté condannare a
morte. E' lo stesso Pilato a rispondere a Gesù: «Sono io forse un giudeo? La
tua nazione e i sacerdoti-capi ti hanno consegnato a me» (Gv 18, 35). Ed ancora: «Non vuoi parlarmi? Non sai che ho il potere
di liberarti e ho il potere di crocifiggerti?» (Gv 19, 10).
Le regole processuali
erano ritenute false se le testimonianze non figuravano concordi. Nel caso di
Gesù, come scrive Marco, non furono concordi.
«Quel consesso
sinedrile è illegittimo ed iniquo: illegittimo poiché muove da un sequestro di
persona, cioè da una cattura senza titolo e si svolge sulla base di false
testimonianze; è iniquo poiché tende, come risultato finale, alla condanna di
un innocente».
Per comprendere il
significato della croce occorre, anzitutto, mettere in rapporto l'evento del
Calvario con ciò che lo precedé e ciò che seguirà (risurrezione, parusia). Si
deve, quindi, tener conto delle libere scelte di ogni protagonista; prendere in considerazione il significato
simbolico della crocifissione.
Trascorsero dei
secoli prima che si raffigurasse il supplizio di Gesù, per l'orrore che
suscitava sia l'aspetto fisico sia quello simbolico della crocifissione.
A parte la riduzione
a puro ornamento, la croce dal quarto secolo divenne emblema di potere.
Costantino, ardente
cultore della dea Vittoria, dopo la
conversione
interpretò il successo come dono di Cristo (
In
hoc signo vinces).
Lo stesso
significato, purtroppo, si rinnovò nei secoli successivi: i cristiani abusarono
della croce come un'arma segreta per scopi militari e per commettere stragi.
Nel 1972 il teologo
luterano tedesco Jürgen Moltmann, con
la sua opera Dio crocifisso, dopo la
critica di tutte le forme alienanti di culto della croce, dimostrò come essa
acquista senso solo se letta in modo escatologico e storico.
«In Cristo risorto è
racchiuso e anticipato il futuro dell'umanità: e Cristo non è altro che un
oppresso, un essere ingiustamente condannato dagli uomini e salvato da Dio. La
vicenda cristica è l'emblema di questa teologia della speranza per cui,
guardando alle vicende di Cristo, tutti quanti possiamo sperare in una salvezza
futura e attuantesi non in questo mondo, bensì nell'alto dei Cieli».
Il sentimento della
nostra gente verso il sacro attinge radici profonde.
Gli avi, come insegnò
nonna Vincenza, prima di accingersi alle fatiche quotidiane praticavano il Segno di Croce e chiedevano al Signore
l'aiuto dell'Angelo Custode affinché venissero salvaguardati dal peccato
mortale:
Gesù, quandu mi levu
la matina
dicitimmillu Vui
com'haju a fari,
mandàtimi l'Angelu pe'
guida
pe' nommu cadu 'n peccatu
mortali.
L'atto più popolare e
più eloquente del cristiano è, dunque, il segno di croce fin da tempi remoti.
L'apologeta latino Tertulliano (155-230 circa) scrive:
«Frontem signaculo crucis terimus» (De
corona mil., 3, 11).
Nella Chiesa tutto veniva
consacrato con tale segno poiché dalla Santa Croce, fonte di ogni benedizione,
scaturiscono le grazie:
«Crux tua omnium fons
benedictionum, omnium est causa gratiarum: per quam credentibus datur virtus de
infirmitate, gloria de opprobrio, vita de morte» (S. Leone Magno, Sermo 8 De passione Domini).
Tra le figure
geometriche la Croce funziona da sintesi, mediazione, misura e comunicazione:
in essa si congiungono Cielo e Terra, Tempo e Spazio.
Il Cristianesimo ne
ha rielaborato e arricchito il simbolismo per rappresentare il Cristo, il
Verbo, la Seconda Persona della Trinità (il legno della Croce, secondo la
leggenda, proviene dall'albero sorto sulla tomba di Adamo).
San Paolino da Nola (353-431), vescovo e modello di perfezione,
esulta:
«O Croce, indicibile amore di Dio; Croce, gloria del
cielo! Croce, salvezza eterna; Croce terrore dei malvagi. Sostegno dei giusti,
luce dei cristiani, o Croce, per te sulla terra Dio nella carne si è fatto
schiavo; per te nel cielo l'uomo in Dio è stato fatto re; per te la luce vera è
sorta, la notte maledetta fu vinta. […] Sei diventata la scala su cui l'uomo
sale al cielo. Sii sempre per noi, tuoi fedeli, la colonna e l'ancora: sostieni
la nostra dimora, conduci la nostra barca. Nella Croce sia salda la nostra fede,
in essa si prepari la nostra corona».