mercoledì 18 aprile 2012

Per Padre Stefano


Grazie, don Stefano!
  
 Caro Padre Stefano,
ricordate l’acrostico augurale che vi ho composto per zia Serafina (http://www.brutium.info/contributi/contributi03.htm) e il vostro intervento alla presentazione di un mio libro di poesie?
 Ora siete stato voi a ispirarmi il modesto sonetto, composto a braccio, che qui riporto con l’ultima foto che vi ho scattato al mio S. Martino.
 Grazie!

  A Padre Stefano De Fiores

Don Stefano, devoto di Maria,
l’ancella prediletta del Signore,
seguìto avendo voi la sua scia,
pace imploriamo per vostro favore.

Le vostre care mamme in armonia
gelose furon del vostro candore
e dalla Terra vi portaron via
per abbracciarvi fortemente al cuore.

Padre De Fiores, nostro orgoglio e vanto,
v’è grata Polsi con la gran Montagna
cui per il mondo diffondeste il rito.

Fateci scudo col divino manto
della Madonna e nostra fede magna
compenso avrà ad ogni giusto invito.





domenica 15 aprile 2012

Ricordando Padre Stefano


Ricordando Padre Stefano De Fiores
                                                                                             

 Sabato 14 aprile è tornato alla Celeste Dimora l’illustre teologo Padre Stefano De Fiores, motivo d’orgoglio per noi tutti che abbiamo conosciuto la sua grande generosità e il suo tenace legame alla Terra natia. Per lenire il sincero cordoglio, ripercorriamo la laboriosa esistenza e la straordinaria opera che, siamo certi, l’intero mondo cattolico saprà meglio valorizzare.
 Nato a San Luca (R.C.) nel 1933 e battezzato l’anno dopo a Polsi, dove la famiglia si era trasferita temporaneamente per motivi di lavoro del padre, appaltatore edile, Stefano De Fiores consolidò in quel Santuario un profondo anelito devozionale. Una mattina del 1946 Padre Vittorio Berton, zelante monfortano, mentre era intento a celebrare la Messa, osservò il ragazzo tutto assorto nella viva atmosfera del sacro rito. Nei giorni successivi ebbe la conferma degli autentici sentimenti di  Stefano, per cui gli propose di diventare missionario della Madonna. La risposta immediata del giovane fu quella di volersi fare sacerdote. A questo punto la madre, consapevole della vocazione del figlio, fu ben lieta della scelta e, all’età di appena 13 anni, Stefano partì alla volta di Redona di Bergamo dove intraprese gli studi ginnasiali.
 «... Il cammino da Polsi a Loreto», ha scritto il Vescovo di Locri - Gerace, «è stato segnato da una devozione intensa alla Vergine Maria. E’ questa devozione che ci dà la misura dell’individuazione di questi due luoghi, il primo come punto di partenza e l’altro come approdo significativo della vita, anche se non definitivo. Polsi è per P. Stefano la culla della devozione mariana, il luogo dove Mamma Natalina, come fanno tutte le nostre madri, ha insegnato al piccolo Stefano a scoprire l’eccelsa e universale maternità di Maria e lo ha spinto a legarsi ad essa con un vincolo d’amore, che avrebbe poi dovuto sostituire quello della sua maternità terrena... ».[1]
 Superato lodevolmente ogni esame, Stefano svolse a Castiglione Torinese il suo noviziato. Seguì il percorso liceale e teologico nonché la densa e lunga esperienza comunitaria, vissuta all’interno della Compagnia di Maria.
 Il legame con San Luca, da apostolino, fu rappresentato dal ritorno ogni anno nel mese di luglio. «Padre Stefano è orgoglioso della sua Terra, che s’identifica con la prodigiosa Immagine di Maria SS. della Montagna».[2]
 A Loreto, nella Basilica, il 21 febbraio 1959 venne ordinato sacerdote, ma decise di celebrare la prima Messa il 2 agosto 1960 nel suo paese.
 Da allora, l’impegno professionale e culturale del religioso fu una continua ascesa: professore di storia dell’Arte, Licenza in teologia presso la Pontificia Università Lateranense, laurea in Teologia Spirituale (1973) alla Gregoriana della capitale.
 Pubblicò, quindi: “Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa”, primo di una lunga serie di libri. Chiamato ad insegnare Mariologia alla romana Pontificia Facoltà Teologica “Marianum”, divenne famoso nel settore. Al Vaticano, con Giovanni Paolo II, offrì il suo valido contributo nell’elaborare documenti.
 I numerosi riconoscimenti, l’appartenenza alle più prestigiose accademie mariane, le autorevoli testimonianze dimostrarono che Padre Stefano fu Maestro di profonda spiritualità.
 La scelta religiosa di Stefano, orfano del genitore a 5 anni, rappresentò un sollievo morale e spirituale per la madre. Gli interessi specie nel campo artistico e letterario, raggiunto l’eccellente traguardo degli studi teologici, risultarono molteplici. In breve divenne una delle figure più rappresentative nella sua Congregazione, conseguendo prestigiosi e meritati riconoscimenti.
 Per quanto riguardò l’eccezionale rettitudine, si apprende dalla testimonianza di Giuseppe Strangio che: «Qualcuno del popolo, analogamente a quanto avveniva per Corrado Alvaro, sostiene che è vero che Padre Stefano è famoso in tutto il mondo e che ha scritto tanti libri, ma, in concreto, per il suo Paese ha realizzato poco o nulla. Gli viene (impropriamente) rimproverato che pur essendo un autorevole studioso, che “conta” a Roma, non si è adoperato per sistemare giovani laureati di San Luca in posti pubblici, non ha trovato qualche collocazione per giovani disoccupati, non ha portato finanziamenti per il paese».[3] Ma il prestigio che il Padre diede alla Comunità sanluchese valse molto più di un favore temporaneo: ben lo sanno coloro che hanno a cuore il senso della giustizia.
 Fra la ricca produzione teologica del Padre ci limitiamo a segnalare qualche grande opera: De Fiores - Goffi (edd.), “Nuovo dizionario di spiritualità” - Ediz. Paoline - Roma, 1999; De Fiores - Meo (edd.), “Nuovo dizionario di mariologia” - Ediz. Paoline - Cinisello B., 1996; “Maria. Nuovissimo dizionario” - Ediz. Dehoniane - Bologna, 2008. Ed ancora: “S. Luca. Memorie storiche a 400 anni dalla fondazione” (1592) - Ediz. Monfortane - Roma, 1989; “Il beato Camillo Costanzo di Bovalino. Con 17 lettere inedite dal Giappone e dalla Cina” - Ed. Qualecultura/Jaca Book - Vibo Valentia, 2000.
 La forte devozione mariana di Padre Stefano, in un certo senso, potremmo avvicinarla a quella di Giovanni Paolo II che aveva scelto per suo motto apostolico: “Totus tuus”.
 Ha scritto De Fiores: «Dalla storia della mariologia risulta che Maria è una donna protagonista e una “sintesi di valori”, tanto che il sociologo A. Greeley la definisce: “Il simbolo più popolare del Cristianesimo” e la teologa Elizabeth Johnson: “La figura femminile più celebrata nella tradizione cristiana”. Ella appartiene alla cultura ebraico-mediterranea, ma anche a tutte le altre che l’hanno adottata e proclamata beata, secondo la profezia del “Magnificat”».[4]
 Come Francesco, fedele sposo di donna Povertà e che i suoi seguaci affascina, anche Stefano realizzò la sua mistica unione con Madre Chiesa fino a festeggiarne nel 2009 le nozze d’oro. Avrebbe inneggiato il divino poeta:
 «Oh ignota ricchezza! Oh ben ferace!» (Pd XI, 82)
 «... dietro allo sposo, sì la sposa piace» (Pd XI, 84).
 Nel delicato momento storico in cui viviamo, caratterizzato dalla polemica sulla  presenza del Crocefisso nei luoghi pubblici, è opportuno esaminare il pensiero di Padre Stefano nei riguardi della croce e delle radici cristiane dell’Europa.
 La croce di Polsi ha aperto la mente alla considerazione dei monaci basiliani, poiché il suo culto affonda le sue radici nel monachesimo bizantino o italo-greco. La croce è il simbolo che unisce le diverse genti, in particolare la Chiesa greca e quella latina con i loro rispettivi riti, in quel lungo periodo di condominio, all’insegna della tolleranza che gli storici datano dall’anno mille al XV secolo. Non per nulla la croce di Polsi è sormontata dalla mezzaluna, con riferimento alla convivenza rispettosa con i musulmani.
 Ha affermato De Fiores: « “Fulget crucis mysterium” - canta la liturgia nel periodo quaresimale. La stessa frase diciamo noi dopo aver ricordato le vicende della croce di Polsi. E’ vero che il bue l’ha trovata per terra e quindi così venne raffigurata, ma la scena non ricevette l’approvazione di Benedetto XIV (Prospero Lambertini) se non a patto che “si scolpisse un Angelo in atto di reggere la croce”. Al di là delle raffigurazioni, la croce deve essere innalzata, cioè mostrata, onorata, celebrata. Contemplare la croce è entrare nelle profondità del mistero del sommo amore di Cristo per il Padre e per tutti gli esseri umani. Il discorso sulla croce è quanto mai serio e impegnativo, e saturo d’interpellanze da non disperdere. [...] La croce è un simbolo che risale all’antichità più remota: a Creta se ne è trovata una scolpita in marmo 15 secoli avanti Cristo. Prima di essere un supplizio, la croce è il simbolo più totalizzante in assoluto: ha forza “centrifuga e centripeta”, rimanda e unisce l’est e l’ovest, il nord e il sud. S’iscrive nel cerchio, genera il quadrato e il rettangolo. La croce latina che sviluppa l’asse verticale inferiore, richiama le dimensioni dell’uomo e diventa infine simbolo di Cristo crocifisso, anzi s’identifica con lui fino a poter essere adorata (con culto “relazionale” non assoluto)».
 Pertanto, concludiamo con De Fiores: «Ora che riconosciamo nella croce di Polsi un segno eloquente dell’unità d’Europa, sta a  noi onorarla: “A la cruci avimu a fari grandi onuri!” ».
 E’ anche questo il nostro modo migliore per ricordare Padre Stefano!
                                                                               


 




[1] Fondazione C. Alvaro, “Da Polsi a Loreto con Maria nel cuore” - Dalla presentazione di P. Giuseppe Fiorini
  Morosini - Arti Grafiche Ediz., Ardore M. (RC), 2009. Dal libro ho tratto le note biografiche di S. De Fiores.
[2] Domenico Caruso, “Storia e folklore calabrese” - Centro Studi “S. Martino” - S. Martino (RC), 1988.
[3] “Da Polsi a Loreto...”, op. citata.
[4] Da “I Santi nella Storia” - Vol. n. 13 - (Indici e Patronati) - Edizioni San Paolo - Cinisello B. (MI), 2006.

lunedì 2 aprile 2012

Da "Il processo di Gesù"


Riporto l’ultima parte de “Il processo di Gesù”, che ho pubblicato sul mensile La Piana di Palmi-RC - Anno X, dall’aprile al luglio 2011:

 […] (Pilato) informato dal centurione (della morte), concesse il cadavere a Giuseppe d'Arimatea, il quale, comprato un panno di lino, fece deporre Gesù, lo avvolse col panno di lino e lo pose in un sepolcro che era stato tagliato nella roccia. (Mc 15, 45-46).[1]
 Per la tradizione ebraica non si poteva uccidere un uomo che non fosse stato giudicato dal Sinedrio. L'organo preposto al rispetto della Legge era - generalmente - formato da 70 membri (oltre al presidente), che si riunivano nella sinagoga. I testi normativi prevedevano un quorum di 23 membri per la validità delle decisioni: il primo gruppo era costituito dai sacerdoti, il secondo da ricchi laici di Gerusalemme (anziani del popolo), il terzo dagli scribi.
 Fra i seguaci nascosti del Nazzareno c'era Giuseppe d'Arimatea, «uomo giusto e buono, […] hic non consenserat consilio et actibus eorum (che non si era associato alla loro deliberazione e alla loro azione)» (Lc 23, 50-51).
 Giovanni lo definisce «discepolo di Gesù, ma segreto per paura dei Giudei» (19, 38).  E' probabile che sia stato proprio il Divino Maestro a consigliarlo di tenersi lontano. Sarà lui a svolgere un ruolo determinante nella Passione.
 Giuseppe si fece dare da Pilato il corpo di Gesù che depose dalla croce, avvolse in un sudario, sistemò e sigillò nella tomba.
 L'evangelista Marco completa il ritratto di Giuseppe, «distinto membro del consiglio, il quale (come tanti giusti israelitici) aspettava anch'egli il regno di Dio» (15, 43).
 Ripercorriamo brevemente le varie tappe del Calvario per comprendere le angosciose condizioni fisiche e psicologiche di Gesù.
 La notte in cui fu tradito, al Getsemani «incominciò ad essere preso da terrore e da spavento. Perciò disse loro (ai discepoli): L'anima mia è triste fino alla morte. Rimanete qui e vegliate!» (Mc 14, 33-34).
 Seguirono il tradimento di Giuda, l'arresto, l'abbandono e la fuga degli apostoli, la comparsa da Anna, il rinnegamento di Pietro. Una delle guardie gli diede uno schiaffo; Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote. E il gallo cantò tre volte.
 «Intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo percuotevano. Gli bendavano gli occhi e gli domandavano: Indovina: chi ti ha colpito?. E dicevano contro di lui molte altre cose, bestemmiando» (Lc 22, 63-65). Fattosi giorno, difronte al Sinedrio si celebrò il processo religioso. In disparte, Giuda si uccise; Gesù da Pilato e da Erode subì la condanna romana.
 Pilato, dopo l'interrogatorio e il rilascio di Barabba, lo fece flagellare dai soldati; quindi coronato di spine, schernito, spogliato, sputato ed ancora percosso  lo presentò: Ecce Homo! (Gv 19, 5).
 Si pervenne, così, all'ora della crocifissione e della morte.
 Dallo studio della Sacra Sindone si possono dedurre le sofferenze finali del Nazzareno. Il sudario, conservato nel Duomo di Torino, fin dal 1898 (anno in cui fu fotografato per la prima volta) è oggetto di controversie scientifiche, ma la sua veridicità sta nella fede di chi crede. Sul lenzuolo funebre è visibile l'immagine di un uomo di cui è identificabile la causa di morte, la crocifissione. Oltre alla rigidità cadaverica, si notano le ferite da flagellazione, i fori dei chiodi ai polsi e ai piedi, lo squarcio al fianco sinistro, le trafitte sul cuoio capelluto. La corta frusta (flagrum), con palline di piombo e ossa di pecora infilate nelle cinghie di pelle, aveva prodotto profonde lacerazioni sufficienti ad indebolire l'esausto fisico. Se a ciò si aggiungono il dolore lancinante del passaggio dei chiodi, il peso continuo del corpo, l'impossibilità di movimento e il colpo di grazia è chiaro che non c'era possibilità di sopravvivenza. La fuoruscita di sangue (corrispondente al gruppo AB umano) e liquido sieroso fu cagionata dallo squarcio della lancia acuminata.
 I segni della Sindone corrispondono alla testimonianza evangelica.
 Nella narrazione popolare di nonna Vincenza Femìa si rievocano i momenti più drammatici di Gesù e dell'afflitta Madre:
Matina di lu vènnari
a la strata di Maria,
e cu' vo' sentiri pianti
pemmu va' vàsciu a la Cruci
ca dà c'è Maria chi piangi:
Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
Ca cincu piaghi 'nci fìciaru a fìgghiuma
chidi 'nfami e crudili;
ca cincu piaghi 'nci ficiaru a fìgghiuma
chidi 'nfami e tradituri!
E cu' vo' sentiri pianti
pemmu va vàsciu a la Cruci
ca dà c'è Maria chi piangi:
- Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
Chida piaga di li pedi
chida dà nd'ha fattu beni;
se fu chida di li mani,
chida fu caja mortali;
se fu chida di lu ventri
chida fu la cchiù dolenti;
se fu chida di la testa
chida fu la cchiù tempesta;
se fu chida di lu latu
'nci scasau l'arma e lu hjatu!
E cu' vo' sentìri pianti
pemmu va' vàsciu a la Cruci,
ca dà c'è Maria chi piangi:
- Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
 Per dissipare ogni dubbio sui veri colpevoli della condanna ripartiamo dall'antisemitismo, sentimento piuttosto diffuso anche prima del Cristianesimo, che considera il popolo ebraico nemico degli uomini e degli dei.
 «Forse la formulazione troppo schematica di Giovanni non avrebbe avuto tanto peso nei secoli successivi, se Matteo non avesse riferito l'incidente sopraggiunto alla fine del processo: E tutto il popolo rispose: - Il suo sangue ricada sopra noi e i nostri figli - ».[2] (Mt 27, 25).
 Dopo la morte di Cristo, però, i suoi discepoli dovettero subire le violenze delle autorità ebraiche.
 E' da ribadire che la conclusione del processo romano, come si evince anche dai Vangeli, fu dettata da motivi politici.
 Una prima ipotesi riguarda l'opera e l'atteggiamento di Gesù ritenuti sovversivi dal governatore. «Una seconda spiegazione è anche perfettamente conducibile con la condanna politica inflitta da Pilato: lo scontro di Gesù non fu con Roma, ma con i capi del suo popolo, in particolare con l'aristocrazia sacerdotale. Costoro tuttavia riuscirono a farlo apparire come rivoluzionario di fronte a Pilato, per cui ne ottennero la condanna».[3]
 Il Sinedrio, invece, da quando nella Giudea vi fu un amministratore romano, non poté condannare a morte. E' lo stesso Pilato a rispondere a Gesù: «Sono io forse un giudeo? La tua nazione e i sacerdoti-capi ti hanno consegnato a me» (Gv 18, 35). Ed ancora: «Non vuoi parlarmi? Non sai che ho il potere di liberarti e ho il potere di crocifiggerti?» (Gv 19, 10).
 Le regole processuali erano ritenute false se le testimonianze non figuravano concordi. Nel caso di Gesù, come scrive Marco, non furono concordi.
 «Quel consesso sinedrile è illegittimo ed iniquo: illegittimo poiché muove da un sequestro di persona, cioè da una cattura senza titolo e si svolge sulla base di false testimonianze; è iniquo poiché tende, come risultato finale, alla condanna di un innocente».[4]
 Per comprendere il significato della croce occorre, anzitutto, mettere in rapporto l'evento del Calvario con ciò che lo precedé e ciò che seguirà (risurrezione, parusia). Si deve, quindi, tener conto delle libere scelte di ogni protagonista;  prendere in considerazione il significato simbolico della crocifissione.
 Trascorsero dei secoli prima che si raffigurasse il supplizio di Gesù, per l'orrore che suscitava sia l'aspetto fisico sia quello simbolico della crocifissione.
 A parte la riduzione a puro ornamento, la croce dal quarto secolo divenne emblema di potere.
 Costantino, ardente cultore della dea Vittoria, dopo la conversione interpretò il successo come dono di Cristo (In hoc signo vinces).[5]
 Lo stesso significato, purtroppo, si rinnovò nei secoli successivi: i cristiani abusarono della croce come un'arma segreta per scopi militari e per commettere stragi.
 Nel 1972 il teologo luterano tedesco Jürgen Moltmann, con la sua opera Dio crocifisso, dopo la critica di tutte le forme alienanti di culto della croce, dimostrò come essa acquista senso solo se letta in modo escatologico e storico.
 «In Cristo risorto è racchiuso e anticipato il futuro dell'umanità: e Cristo non è altro che un oppresso, un essere ingiustamente condannato dagli uomini e salvato da Dio. La vicenda cristica è l'emblema di questa teologia della speranza per cui, guardando alle vicende di Cristo, tutti quanti possiamo sperare in una salvezza futura e attuantesi non in questo mondo, bensì nell'alto dei Cieli».[6]
 Il sentimento della nostra gente verso il sacro attinge radici profonde.
 Gli avi, come insegnò nonna Vincenza, prima di accingersi alle fatiche quotidiane praticavano il Segno di Croce e chiedevano al Signore l'aiuto dell'Angelo Custode affinché venissero salvaguardati dal peccato mortale:
Gesù, quandu mi levu la matina
dicitimmillu Vui com'haju a fari,
mandàtimi l'Angelu pe' guida
pe' nommu cadu 'n peccatu mortali.[7]
 L'atto più popolare e più eloquente del cristiano è, dunque, il segno di croce fin da tempi remoti.
 L'apologeta latino Tertulliano (155-230 circa) scrive: «Frontem signaculo crucis terimus» (De corona mil., 3, 11).
 Nella Chiesa tutto veniva consacrato con tale segno poiché dalla Santa Croce, fonte di ogni benedizione, scaturiscono le grazie:
 «Crux tua omnium fons benedictionum, omnium est causa gratiarum: per quam credentibus datur virtus de infirmitate, gloria de opprobrio, vita de morte» (S. Leone Magno, Sermo 8 De passione Domini).
 Tra le figure geometriche la Croce funziona da sintesi, mediazione, misura e comunicazione: in essa si congiungono Cielo e Terra, Tempo e Spazio.
 Il Cristianesimo ne ha rielaborato e arricchito il simbolismo per rappresentare il Cristo, il Verbo, la Seconda Persona della Trinità (il legno della Croce, secondo la leggenda, proviene dall'albero sorto sulla tomba di Adamo).
 San Paolino da Nola (353-431), vescovo e modello di perfezione, esulta:
 «O Croce, indicibile amore di Dio; Croce, gloria del cielo! Croce, salvezza eterna; Croce terrore dei malvagi. Sostegno dei giusti, luce dei cristiani, o Croce, per te sulla terra Dio nella carne si è fatto schiavo; per te nel cielo l'uomo in Dio è stato fatto re; per te la luce vera è sorta, la notte maledetta fu vinta. […] Sei diventata la scala su cui l'uomo sale al cielo. Sii sempre per noi, tuoi fedeli, la colonna e l'ancora: sostieni la nostra dimora, conduci la nostra barca. Nella Croce sia salda la nostra fede, in essa si prepari la nostra corona».
                                                                                          




[1] Dalla Via Crucis - Venerdì Santo 1991.
[2] Jean Imbert, Il processo di Gesù - Morcelliana, Brescia - 1984.
[3] Pier Claudio Antonini, Processo e condanna di Gesù - Claudiana, TO - 1982.
[4] Ubaldo Esposito, Il processo di Gesù - Edizioni Brenner, CS - 2000.
[5] Cfr. Gerald O'Collins, Verso una teologia della croce - (Da Rassegna di teologia).
[6] Dal sito www.filosofico.com: Jürgen Moltmann a cura di Diego Fusaro.
[7] D. Caruso, Storia e Folklore Calabrese - Centro Studi “S. Martino” - S. Martino (RC), 1988.

domenica 1 aprile 2012

Superstizione e religione


Superstizione e religione
                                                                                         
                                                                                             
 Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), "degli altri poeti onore e lume" (Inf. I, 81) che Dante scelse come guida attraverso i gironi dell'Inferno e del Purgatorio, affermò che occorre incominciare da Giove, poiché tutte le cose sono piene del re degli dei: «Ab Jove principium, Musae; Jovis omnia plena» (Ecl. III, 60).
 La religione rappresenta la realtà assoluta, indicata col nome di Dio (in greco thèos). Per alcuni il termine deriverebbe dalla radice latina del verbo ligare (legare), equivalente al rapporto di devozione verso la divinità, mentre la voce monoteismo (dal greco monos) denota la fede in un solo Dio. Quest'ultimo  nome proviene dall'indoeuropeo deiwo e dalla radice div, col significato di luce. Ma la storia dell'umanità conobbe, nel corso dei secoli, diverse forme di riti e usi sacri, per cui è opportuno formulare un concetto: «La religione non è solo conoscenza più o meno speculativa di una realtà. Presa così sarebbe uno studio o una riflessione filosofica. E neppure si riduce al desiderio di un bene percepito sotto forma di divinità. L'elemento fondamentale della religione è la contingenza, l'essere stesso e l'esistere creaturale dell'uomo».[1]
 L'analisi delle religioni presenta dei punti in comune (costanti), partendo dai quali si giunge alla configurazione religiosa dei popoli.
 A motivo di sintesi seguirò la classificazione adottata dallo studioso spagnolo Manuel Guerra, già docente di Teologia all'Università di Burgos.
 La più arcaica religiosità, quella tellurica, espressa sotto forma di dea madre Terra (le cui figure femminili risalgono a circa 30.000 anni or sono), fa sì che nella terra si cali l'origine e il destino dell'uomo. Nel «bacino del Mediterraneo, attorno al quale i Greci si insediarono, a dire di Platone, come rane attorno a uno stagno, è la culla del Cristianesimo. Sotto l'aspetto religioso, in epoche precedenti l'avvento del Cristianesimo e nei primi secoli dopo Cristo, questa area fu dominata dalle religioni celesti e misteriche».[2] In tale divisione la rappresentazione umana (antropomorfismo) della divinità è Zeus, termine associato a quello di padre. Durante la costante etnico-politica, che segue, ogni popolo ebbe la propria religione; mancarono un fondatore conosciuto e il proselitismo; si tese alla conservazione e alla prosperità della comunità sotto i diversi aspetti. Mentre le radici delle religioni etnico-politiche e di quelle celesti si fusero nel sottosuolo del clan o del popolo, quelle misteriche trovarono corrispondenza nella terra resa divinizzata. A differenza di quanto avveniva nel fatto tellurico, l'efficacia si ebbe nel serpente quale simbolo e presenza del dio misterioso. Unito alla divinità, fin dal principio, l'iniziato aspirò al bene futuro.
 «La salvezza e la felicità si misurano in base all'intensità della sympàtheia o com-passione, nel significato etimologico dei termini (greco il primo - simpatia - di origine latina il secondo), vale a dire, nella misura in cui sono sentiti con la divinità i propri dolori, la morte e altre sventure».[3]
 Appariva indispensabile condurre un'esistenza corretta, costituendo la morte il passaggio da una vita all'altra.
 Tralascio la trattazione delle religioni universali come l'induismo, il confucianesimo e il taoismo, il buddhismo, il jinismo, l'islamismo, lo yahvismo israelita poiché meriterebbero un approfondimento specifico.
 Passo, così, al Cristianesimo che - pur possedendo tratti caratteristici delle religioni universali - si differenzia per la figura particolare del suo fondatore, Gesù Cristo. Anzi,  nella storia generale delle religioni s'inserisce anche la Chiesa, la quale come «…Popolo di Dio presenta caratteristiche che lo distinguono nettamente da tutti i raggruppamenti religiosi, etnici, politici o culturali della storia…».[4] Diversamente dalle altre comunità, quella cristiana (in greco ekklesìa, chiesa, significa adunanza), proclama di essere la prosecuzione reale di Gesù Cristo. La presenza della Chiesa nel mondo avviene in modo sacramentale per la partecipazione amorevole di Dio, che si rivelò e si donò all'uomo. Prendo a prestito le parole di Corrado Balducci (1923-2008) per affermare: «…Nessuno poteva immaginare duemila anni fa, quando gli dei della mitologia greco-romana scagliavano i loro fulmini, una religione in cui Dio stesso venendo sulla terra avrebbe insegnato agli uomini una preghiera che incomincia: - Padre nostro… - ».[5] Poiché dipende da Dio, non c'è dubbio  che «l'uomo non può convertire la divinità, in quanto realtà suprema, in oggetto di sua proprietà né in strumento al servizio delle personali necessità e capricci».[6]
 Sembra incredibile come, nell'era presente contraddistinta dal progresso scientifico e tecnologico, l'uomo sia ancora schiavo di antiche sopravvivenze.
 In tal senso collochiamo la voce superstizione (dal latino superstitio, che sta sopra), contrapposto a religio. Accanto alle costanti religiose, infatti, si svilupparono forme secondarie o degradate giunte fino a noi - come l'animismo, il feticismo e la magia. A proposito, il capolavoro comico di Peppino De Filippo (1903-1980) recita: «Non è vero… ma ci credo!». Il ricercare con la magia l'amore, la salute o altro dimostra di non voler accettare con serenità la volontà divina. Il mondo dei simboli, oltre che nelle superstizioni, è presente ed importante per l'esplorazione del nostro spirito nell'ambito  prettamente cattolico. A nessuno sfuggono, ad esempio, i segni espressi nei sacramenti come l'acqua del battesimo, il pane di vita per entrare in comunione con Dio, il calice di vino (il sangue dell'uva, usato nel linguaggio rituale dell'antico patto d'alleanza). Ed ancora, il cero pasquale che rappresenta la luce del Cristo risorto, la domenica giorno del sole e del Signore; lo stesso rituale della Messa riassume altri numerosi simboli. La Chiesa si è posto l'arduo impegno di fare assumere a Cristo il ruolo di Elios, il dio sole dei greci e dell'antica Roma.
 Al fine di scongiurare mali e disgrazie o per procurarsi il successo e la fortuna, vige ancora l'uso di portare addosso qualche  piccolo oggetto, un amuleto. Il termine potrebbe derivare dal latino à-molior (tener lontano) oppure dal greco àmulon (specie di focaccia, che si offriva sugli altari o sulle tombe per propiziarsi gli dei o gli spiriti dei defunti). L'oggetto consacrato (in greco tèlesma) è noto anche come talismano.
 Gli antichi egizi consideravano un efficace amuleto lo scarabeo alato (Kepher), animale rappresentante il dio-sole RA che moriva al tramonto per risorgere all'alba del giorno successivo. Lo scarabeus sacer, dalle braccia lunghe, originario del Taiwan, come lo stercoraro ha l'abitudine di creare pallottole di fango ed escrementi che, oltre a procacciargli il nutrimento, favoriscono il dischiudersi delle sue uova. Pure il dio sole (Khepri) svaniva per poi rinascere. Nei primi secoli del Cristianesimo, i Padri della Chiesa proibirono le pratiche pagane e considerarono gli amuleti fonte di idolatria.
 Durante il governo di alcuni imperatori romani, persino le leggi civili vietarono  l'uso degli amuleti per la cura di malattie o applicarono il supplizio a chi si giovava di parole magiche per lo stesso fine.
 Fra le credenze degli avi, nella nostra Piana erano note le cerimonie d'ascolto. Dopo la recita di alcune formule, si chiedeva al santo un segno di buono o di cattivo presagio. Così a S. Martino di Taurianova, Santa Monica o S. Elena avrebbero rivelato in anticipo al proprio devoto l'esito di un evento. Ecco la traduzione di una formula:
 Sant'Elena mia, imperatrice,
figlia del re Carmelitano,
vi partiste con un grande esercito
per cercare la Santa Croce;
dopo averla trovata, 
la Croce vi abbracciaste. 
Per la mia indegnità,
per la vostra santità:
mostratemi la pura verità!
 Prima di disporsi all'ascolto si recitavano un Pater, un'Ave e un Gloria. Era di buon auspicio l'aprirsi di porte e finestre, l'accensione di luci, l'abbaiare di cani; di cattivo augurio - invece - il pianto di bimbi, la chiusura di imposte, lo squittio della civetta. L'animismo figurava molto diffuso: a parte i semplici dotati di un certo carisma, numerose altre persone presumevano di vedere e di parlare con i cari defunti.
 Mentre il cristiano si metteva al servizio di Dio, c'era chi avrebbe voluto servirsi di Dio o di potenze occulte per il proprio interesse.
 Oggi il prosperare dei nuovi movimenti religiosi, composti prevalentemente di giovani che si distaccano dalla fede, viene condannato come idolatria.
 Fra le figure del Vangelo, quella di Tommaso ci induce ad una responsabile riflessione. Pur avendo sempre dimostrato fermezza d'animo e lealtà nei confronti di Gesù, l'apostolo si rivelò incredulo allorquando il Divino Maestro nella sua assenza apparve ai discepoli. Un ragionevole scetticismo non è da condannare, ma giova a stimolare la ricerca della verità: «Beati quelli che hanno creduto senza aver visto!» (Gv 20, 29). Va bene la fede, ma anche chi è nel dubbio potrà divenire beato: dipenderà dalla sua scelta.
 Vale per tutti riflettere sull'opera Orme sulla sabbia della scrittrice canadese Margaret Fishback Powers (nel mio adattamento):
  Ho sognato che passeggiavo
 lungo la spiaggia con il mio Signore
 e rivedevo sullo schermo del cielo
 proiettate le scene della mia vita.
 E per ogni giorno trascorso
 apparivano due orme sulla sabbia:
 le mie e quelle del Signore.
 Ma in alcuni tratti ho notato una sola orma,
 in coincidenza con i  periodi di maggiore angustia e di dolore...
 Allora ho domandato: - Signore,
 ho scelto di vivere con te
 e tu mi avevi promesso
 che avresti camminato sempre accanto a me.
 Perché mi hai lasciato solo
 proprio nei momenti più difficili? -
 E Lui mi ha risposto:
 - Figlio mio, lo sai che ti amo
 e non ti ho abbandonato mai:
 i giorni nei quali
 hai visto soltanto un’orma sulla sabbia,
 sono stati i giorni in cui
 ti ho portato in braccio -
                                                                                 
                                                                          
(Servizio pubblicato da Domenico Caruso sul mensile "La Piana" di Palmi-RC - Anno X, n. 3 - Marzo 2011)
                                         






[1] Manuel Guerra, Storia delle religioni - Editrice La Scuola, Brescia - 1989.
[2] M. Guerra, op. citata.
[3] M. Guerra, op. citata.
[4] Catechismo della Chiesa Cattolica - (al n. 782) - Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano - 1992.
[5] Domenico Caruso, Parapsicologia Oggi - Nel Mondo del Mistero, Centro Studi S. Martino - S. Martino-RC, 1987.
[6] M. Guerra, op. citata.